L'editoriale di marzo




Camminavamo per la via mano nella mano, senza alcuna fretta. Totoca mi insegnava la vita. E io ero molto contento, perché mio fratello maggiore mi dava la mano e mi insegnava le cose. Ma le cose, me le insegnava fuori casa. 
Perché in casa io imparavo a scoprire e a fare da solo, sbagliavo e sbagliando finiva sempre che mi beccavo una sberla. Fino a poco tempo prima nessuno mi picchiava,
ma poi avevano scoperto le mie cose e non facevano altro che ripetere che ero cattivo, che ero un diavolo, un gattaccio giallo e spelacchiato.

José Mauro De Vasconcelos (1968), Il mio albero di arance dolci, Blackie, 2022

Zezé abita una periferia del mondo, quella della favela di Bangu a Rio de Janeiro. Tutti lo chiamano «diavolo» per via della sua tendenza a disobbedire, a cui i genitori rispondono a suon di sberle. Per gli altri è, come si dice in portoghese brasiliano, il «menino de rua delle favelas», cioè il bambino di strada delle baraccopoli, uno di quegli ultimi da evitare, che non viene guardato con tenerezza nemmeno per la sua giovane età, ma con diffidenza, come se le condizioni in cui sta crescendo fossero colpa sua.

Zezé è uno dei tanti bambini e delle tante bambine senza voce, e anche senza visibilità, di cui siamo circondati, che incrociamo anche nelle nostre città, che spesso ci sono molto vicini anche se non li vediamo, o non li guardiamo. Perché, occorre dirselo, guardare in faccia bambine e bambini sporchi di mondo e non tirati a lucido da contesti favorevoli, stare loro accanto, tendere loro la mano, è molto più difficile. Così, questi bambini e bambine, già svantaggiati dalle loro condizioni di partenza, dai posti ai margini in cui si sono trovati a vivere, dalle fatiche degli adulti che li condividono con loro, aggiungono a tutto ciò anche un sostanziale disinteresse per la loro storia, finendo essi stessi per assumere quel disinteresse come normale. Finendo per smettere di sognare e desiderare.

Eppure – la storia di Zezé ne è un esempio – bastano un piccolo albero di arance dolci e un amico per trovare spiragli di luce. E un desiderio resistente, un sogno che non si spegne nemmeno se intorno tutto dice che non c’è speranza, che non si potrà realizzare. Per Zezé è andata così, col suo sogno di poesia e parole belle diventato reale nella scrittura di questo libro da parte del protagonista cresciuto, nonostante tutto. Per tutte le altre e tutti gli altri, che ci siano educatrici, educatori, insegnanti capaci di vedere oltre la sporcizia, la ruvidità, la disobbedienza, o forse proprio di vederci dentro, riconoscendo i desideri e sostenendo la possibilità di realizzarli. Che a vedere la luce dove c’è già sono capaci tutti, ma vedere nel buio è proprio di chi educa.

Monica Guerra

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