Diritti di bambine e bambini
a cura di Elisabetta Biffi e Chiara Carla Montà
Diritti e tutela: esperienze di formazione
nei servizi per la prima infanzia
di Daniela Corradi e Simona Vigoni
Quanto vengono presi sul serio i bambini e le bambine? Quanto si riconosce come legittimo ciò che pensano e sentono? Quanto si coltiva l’esercizio dell’osservazione e dell’ascolto attivo per intercettare le loro idee e accogliere i loro bisogni? Questo è stato l’incipit di diversi interventi di formazione e supervisione pedagogica che avevano l’obiettivo di accompagnare gli adulti a indossare lenti e ad abitare posture capaci di cogliere le visioni del mondo di cui bambini e bambine sono portatori. Da questi interventi abbiamo estrapolato alcune azioni per iniziare a ragionare di diritti e tutela dei bambini e delle bambine. Ne presentiamo alcune.
La prima azione riguarda l’analisi di alcuni automatismi che, senza consapevolezza, vengono talvolta agiti nelle pieghe del quotidiano. Portare a emersione pedagogie latenti e inespresse, “prenderle in mano”, è il primo passo per disarcionarle. Durante i percorsi formativi, per poterle riconoscerle e rappresentarcele, abbiamo sentito l’esigenza di nominarle. In questo ci ha aiutato l’analisi riflessiva dei testi di Christine Schuhl, educatrice, formatrice, docente universitaria e consulente educativa in Francia, Belgio e Svizzera. Schuhl, in dieci anni di ricerche condotte nei servizi dell’infanzia francesi, ha elaborato il concetto di “dolci violenze” (Schuhl, 2019), un ossimoro potente per dare un nome alle parole poco rispettose, ai gesti frettolosi, ai giudizi di valore, alle etichette che, sebbene si manifestino per brevi istanti, si rivelano frequenti nell’arco della giornata.
Le “dolci violenze” non sono maltrattamenti né abusi ma abitudini, scivolamenti, derive, interruzioni della sintonizzazione. Schuhl le definisce “dolci” perché non sono azioni premeditate e agite con l’intenzionalità di procurare sofferenza, ma sono gesti, parole, sguardi che, di fatto, giorno dopo giorno, mettono bambini e bambine in una condizione di insicurezza emotiva. L’elenco di queste derive è lungo: cambiare il pannolino a un bambino senza parlargli, toccargli il corpo in modo frettoloso, pulirgli il naso senza avvisarlo, eliminare il pane se non finisce quello che ha nel piatto, impedirgli di dormire perché deve mangiare, lasciarsi andare a giudizi sui genitori davanti ai bambini, costringere all’assaggio, parlare sopra le loro teste, interrompere troppo frequentemente il gioco, adottare una linea del tempo che sembra una catena di montaggio... sono solo alcuni esempi che si potrebbero manifestare nell’arco di una giornata vissuta nei servizi. Secondo Schuhl è un dovere professionale spulciare tra le scene di vita quotidiana, individuando, tra parole e azioni rassicuranti, anche quelle che, inconsapevolmente, sminuiscono e costringono. È necessario trovare spazi e tempi, nel gruppo di lavoro, per ragionare su questi scivolamenti, portarli a emersione, interrogarsi sul perché accadono per innescare misure preventive che vadano nella direzione dell’esercizio di pratiche che siano realmente educative.
Una seconda azione riguarda l’approfondimento delle ricerche più recenti, in particolare neuroscientifiche, che evidenziano la specificità dei bisogni di bambini e bambine, la portata delle loro competenze, i presupposti fisiologici e neuronali per i quali si comportano in un certo modo. Siamo sicure che, quando Marco al nido non ascolta “ci sta provocando e lo fa apposta”? Da dove nasce l’idea che Lucia, 18 mesi, “fa i capricci”? Sono affermazioni scientificamente fondate oppure credenze che andrebbero problematizzate? E quali interventi s’innescano a partire da queste idee? Vi è ancora la convinzione radicata che i bambini vadano “raddrizzati” e che imparino con le umiliazioni o le punizioni, nonostante moltissima letteratura scientifica dimostri i danni sullo sviluppo psicofisico di queste pratiche. Non solo. Quanto siamo disposte a mettere in discussione anche gli interventi che premiano i bambini prevalentemente compiacenti, che corrispondono alle nostre aspettative, sminuendo indirettamente chi non si conforma?
Condividere le ricerche sui processi di sviluppo e sugli effetti di parole e azioni sulla percezione di sé e sulla costruzione della propria autostima è una responsabilità dalla quale i professionisti e le professioniste dell’educazione non possono esimersi perché consente loro di avere aspettative realistiche, progettare interventi coerenti e instaurare relazioni sane e positive. Si tratta, in sostanza, di lavorare su un’idea di bambino e bambina che abbia basi scientifiche: questo influenza le pratiche che diventano, in automatico, forme di prevenzione.
Una terza azione ha a che vedere con la progettazione e la realizzazione di una documentazione pedagogica che restituisca valore ai pensieri, alle idee, alle “esperienze desiderate” (Luini, 2024) dei bambini e delle bambine. I bambini vanno presi sul serio, hanno delle cose da dire e se vogliamo capire come imparano dobbiamo chiederlo a loro. Il lavoro legato alla documentazione pedagogica, specie se narrativa, partecipativa, aperta ai “cento linguaggi” dei bambini e delle bambine, può aiutarci a intercettare il loro punto di vista sul mondo, esprimere la loro visione, condividerla con altri perché diventi un trampolino per cambiamenti di sguardo dentro e fuori la scuola (Biffi, 2023; Clark&Moss, 2014). Ci occupiamo di documentazione pedagogica, quindi, anche perché i bambini e le bambine sappiano che quello che pensano è legittimo e che esistono persone che sono realmente interessate a comprenderli. La documentazione pedagogica è, in questo senso, prima che un dovere del professionista, un diritto dei bambini e delle bambine1.
Con la quarta azione si lavora sul benessere dei professionisti chiamati a svolgere un lavoro che comporta fatica mentale, fisica e alto coinvolgimento emotivo. A volte succede che pratiche non rispettose dei diritti dei bambini e delle bambine vengano attuate per stress e frustrazione: è come se il “cervello emotivo” prendesse il sopravvento, non permettendo di pensare in modo lucido. Come dicono Cavalluzzi e Degli Esposti, “gli educatori oggi hanno un incredibile bisogno di essere ascoltati, visti, accompagnati, sostenuti […] aiutandoli a rafforzare il proprio sé, offrendo loro strumenti e occasioni per entrare in contatto con sé stessi […] al fine di ritrovare la giusta motivazione e di migliorare la qualità della loro vita e quindi del lavoro con i bambini” (Cavalluzzi e Degli Esposti, 2018, p. 11) Andare a lavorare su questo piano significa promuovere contesti di benessere in cui la relazione, responsiva ed empatica, diventa un fattore protettivo.
1 Biffi E., intervento “Dare voce a bambine e bambini nei servizi educativi 06”, Seminario Storie di crescita: ricerca e documentazione nella scuola dell’infanzia, Verbania 14 settembre 2023.
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